(Testo:Ambra Naspi, Voce: Marco Conti, Musica:  Ludovico Einaudi Canzone: “Nuvole Bianche”)

Mi chiamo Filippo, Lucio Cassio Filippo, e vorrei non essere vivo.

Ad ogni passo che compio su questi lidi  battuti dal vento ho in mente lei…

Ormai le impronte che lascio su questa sabbia sono solo le mie, non come quando ti appoggiavi a me stanca ma sorridente, nonostante avessi lasciato tutto per seguirmi… per seguire il tuo sfortunato marito.

Ricordo i tuoi capelli! Oh si, i tuoi capelli, così simili al mirto nero che ondeggia dinnanzi alla nostra casa, ormai così vuota …

La spuma del mare che circonda questa terra immensa e maledetta, mi ricorda le rughe che avevano iniziato a solcare il tuo volto, segno della vita, del tempo vissuto insieme, fino a quando io … io ti ho persa!

Non ti ho persa come si perde normalmente una moglie o una compagna, no! T’ho persa a causa mia, perché mi hai sottratto al mio Destino! Gli amici dicono che sono pazzo a pensarlo, che è un caso, che il Fato si è accanito su di noi ma io penso che tu, tu mi abbia salvato la vita.

Sento ancora le tue parole, il tuo mormorare rivolto agli Dei: “Vi prego salvatelo!”

Ed io che non potevo muovermi, sul mio giaciglio, in preda a febbri altissime, non avevo cognizione di dove fossi, di chi fossi, di quanto tempo passasse, sentivo solo la tua voce dolce e triste: “Ti salverò! Non posso perderti dopo tutto questo tempo!”

Già, 42 anni non sono pochi… sempre insieme, nella gioia ma anche nel dolore.

Ricordo ancora i tuoi occhi timidi e impauriti il giorno delle nozze, davanti all’ara degli Dei.

Io tentavo di rassicurarti con lo sguardo: nulla di male ti sarebbe successo e dentro di me mi impegnai a proteggerti e darti una vita felice nella quiete della nostra casa! Il sangue del sacrificio era ancora caldo davanti a noi, i nostri amici e parenti urlavano: “Feliciter!” e poi danze, musica, cibo, l’inizio di una vita insieme, saremo stati felici, lo sentivo!

 E lo fummo davvero fino a quando Nerone decise di esiliare mio padre e noi lo seguimmo, cosa potevamo fare? L’imperatore non è mai stato tenero con chi si oppone al suo potere!

Decise non la nostra morte, no! Ma l’onta dell’esilio in quest’isola sconosciuta, sterminata, battuta dalla furia di Nettuno; ci condannò alla perdita dei nostri beni e poi a morire ogni giorno un po’ di più, lontani dalle strade, dai suoni, dai colori e dai profumi che amavamo, che erano la nostra vita. Infine, dopo tutto questo, anche la disgrazia: la mia terribile malattia, così comune in questa terra desolata, e così mortale.

Non c’è scampo contro questo flagello degli Dei! Riuscivo solo a chiedermi cosa avessi fatto di male, cosa avresti fatto tu, mia moglie, senza di me, sapevo di non avere speranza alcuna e ti sentivo in lontananza pregare: “ Dei del cielo salvatelo!”

Un giorno sentii più distinte le tue parole, come se il tuono che rimbombava nelle mie orecchie e la lancia che trafiggeva i miei occhi fossero di colpo spariti, per un momento, solo per permettermi di sentire chiaro e distinto i suono di quelle parole di morte: “Prendete me! Vi offro la mia vita in cambio di quella di mio marito!”

In quel momento l’unica cosa che potevo fare era amarti più forte, provare l’ orgoglio di averti come sposa, per il tuo coraggio, per la tua dedizione; ero commosso ma tranquillo … tranquillo perché non ti avrebbero ascoltata.

 Quegli Dei che ci avevano dimenticati, che avevano ignorato le nostre preghiere così a lungo, non avrebbero potuto ricordarsi di noi solo ora, no! Ormai ci avevano dimenticati! “Non ti ascolteranno amore mio”- pensavo e non riuscivo a gridare- “ Questo ormai è il mio destino, la fine è vicina, non ti ascolteranno, lo so, lo spero…”

Il giorno dopo gli uccelli del cielo cantavano. Io li sentivo. Capivo dove ero, per la prima volta dopo settimane, la febbre stava abbandonando il mio corpo, trasformandosi in un lago di sudore.

Aprii gli occhi, facevo fatica,erano come chiusi in una morsa, il sole feriva le mie pupille e, dopo tutto quel buio, lo vidi di nuovo: il tuo sorriso stanco.

Piangevi e sorridevi incredula, eri esausta ma felice, eravamo finalmente di nuovo insieme.

L’indomani ero in piedi, le gambe malferme potevano a stento reggere il mio peso, non sentivo la tua voce ma solo un gran trambusto e vociare sommesso in lontananza, non c’era nessuno intorno a me, mi sembrò strano e mi feci forza.

Mi alzai, le ginocchia si piegavano, “Normale” – pensai – “Non mangio da giorni” e sorreggendomi ai muri della nostra casa arrivai nelle tue stanze.

Era mattina presto, la luce del mare filtrava al’interno della casa dall’atrio polveroso. Amavi alzarti presto! amavi andare al mare e respirare quell’aria frizzante, anche se dicevi sempre di sentirti prigioniera in questa terra avevi trovato qualcosa di bello, anche qui, in questa condizione d’esilio.

Con un po’ di impegno, pensavo, potrò portarti ancora lì, passeggiare con te sulla spiaggia, appena sarò in grado di reggermi in piedi. Invece, appena entrato nella stanza e varcata la soglia, ti ho vista: no, quella mattina non ti eri alzata…

Le schiave, che solitamente ti aiutavano con l’acconciatura e le vesti, mi guardavano attonite con le lacrime agli occhi. No… non ti eri alzata.

Dormivi… la pelle del candore delle nuvole, dormivi, ma capii che non ti saresti più svegliata…

Il sorriso sulle tue labbra era quello che avevo visto il giorno prima: felice per avermi salvato, ma la stanchezza era svanita.

Una morte improvvisa, nel sonno. Inspiegabile, forse, per chiunque non ti avesse sentita pregare quella notte. Mi accasciai non riuscendo neanche ad urlare il mio dolore e la mia incredulità,  pensavo che se avessi sentito la mia voce avrei capito che non era un terribile sogno.

I giorni seguenti sono avvolti nella nebbia per me: ricordo solo il fuoco che avvolgeva la tua pira in riva al mare, le ceneri e le tue ossa racchiuse in un’urna, non potevo crederci, non potevano averti ascoltata sul serio..non sarebbe stato giusto.

Ma forse, Dei, proprio per questo? Per mandarmi altro dolore l’avete ascoltata? Non era abbastanza aver preso la mia casa, avermi strappato alla mia città, alla mia terra, ai miei amici! Adesso anche l’unico conforto che restava alla mia vita? Meglio sarebbe stato morire con lei o meglio, per lei!

Ho provato a implorarvi anche io, urlavo al cielo: “Permettetemi di raggiungerla!” A quanto pare le vostre orecchie sono dure alle mie preghiere. Forse, Tu Giove, sei sensibile solo alle richieste di una donna? Forse Voi tutti avete pensato che sarebbe stato troppo onore per un mortale  continuare ad avere un tale tesoro accanto!

Invidia! L’unico sentimento che vi si addice… avete tutto ma non basta! Prendete ogni cosa a chi ormai non ha più che i suoi ricordi; spero  prendiate anche quelli… almeno smetterei di soffrire.

Ho pensato di uccidermi lo ammetto, ti avrei rivista almeno! Ma non ne ho avuto il coraggio, ho capito di essere anche un codardo, sono niente in confronto alla forza che hai avuto tu, moglie mia! Alla fine non ti ho meritata! Il ferro che doveva uccidermi l’ho rivolto contro la pietra: di ferro era la spada che avrebbe potuto liberarmi così come lo scalpello che ha scolpito nella roccia di quest’isola la tua ultima dimora.

No, non una tomba ma un tempio simile a quelli degli Dei Immortali, come immortale dovrà essere la tua memoria in questo luogo: il vento e il mare non potranno cancellare la nostra storia né il ricordo del tuo sacrificio. I due serpenti che ho fatto scolpire sopra l’entrata, sono il simbolo del nostro amore, sono lì affinché il nostro legame resti, sopravviva allo spazio e al tempo, come le onde di questo mare che tutto avvolge e non dà tregua all’anima mia.

Aspetto la morte, amore mio, sarà sicuramente più dolce della vita che il destino ci ha riservato, la aspetterò ricordandoti e vedendoti in tutti i fiori che in primavera sbocciano intorno alla nostra casa; saremo ancora insieme, presto, nel frattempo, mia adorata Pomptilla, camminerò lungo le spiagge di questa vita anche per te.

 

 

 

Grotta della Vipera


  • La grotta della Vipera è un ipogeo funerario romano che si trova nel viale Sant'Avendrace, nella necropoli di Tuvixeddu, a Cagliari.


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