L’ultimo dei Grimani

palazzoGrimaniFacciata

SCENA I

Cortile del Palazzo Grimani di Santa Maria Formosa a Venezia. Primavera 1863. Pomeriggio. Michele Grimani e l’antiquario Consiglio Richetti.

– No. Non posso accettare un’offerta così bassa.

– Ma eccellenza, è un prezzo molto alto. Il pezzo è buono, ma anche lei sa che il mercato inizia a essere saturo. Qui a Venezia non sono l’unico rivenditore di cose antiche. E oramai, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, gli acquirenti stranieri iniziano a rivolgersi al mercato antiquario del resto della penisola. Da Roma, inoltre, continuano ad affluire nelle collezioni private centinaia di iscrizioni e si stanno moltiplicando i luoghi di scavo, spesso privi di tutela da parte di questo confuso Stato italiano, soprattutto al Sud… E se non si fida della mia valutazione, può sempre chiedere al signor Sanquirico, che ha la bottega in campo San Salvador; so che con lui fate affari da molti anni…

– Ha pure ragione, signor Richetti. Ma questo pezzo vale molto. La mia famiglia lo conserva da secoli. Risale alla prima collezione, quella che con premura fu qui sistemata dall’illustrissimo mio avo, il patriarca monsignor Giovanni Grimani. E’ un’ara con un’iscrizione al dio aquileiese Beleno, che faceva parte di una ben più ampia raccolta…

nicchia

– Certamente, eccellenza. Ma deve anche aggiungere i costi di rimozione. Vede? È incastonato qui, sotto questa nicchia. Bisognerà rimuovere i mattoni del bugnato, curare di non scheggiarla. E nello stesso tempo far attenzione a questa delicatissima edicola rinascimentale: ogni danno sarà subito visibile a chi entra dalla calle. Ci vorranno diversi uomini e tutti di fidata esperienza… basta poco perché questo altare votivo vada frantumato. E la manodopera costa… per non parlare del trasporto…

– Taccia, per carità! Se solo ancora mi… mi… fa venire in mente che razzia è stata operata in questo cortile, che un tempo era amato e riverito da genti provenienti da tutta Europa… non so… proprio non riesco a immaginare cosa sarei capace di fare! Le orde degli Unni non fecero un simile saccheggio neanche ad Aquileia, nei tempi che furono. E i Barberini, per aver fatto molto meno al Pantheon di Roma, vengono ancora ricordati con disprezzo! Vede? Questo capitello era stato eretto già dai miei a ntenati, secoli fa. Il patriarca in persona, mons. Giovanni Grimani aveva concepito il luogo che avrebbe dovuto accogliere questa epigrafe che gli era stata donata dei signori di Savorgnan. Quei beghini! Pensavano di ingraziarsi il mio avo saccheggiando le terre di Aquileia! E così, dalla località di Beligna, dove si dice si innalzava la chiesa di S. Cosma hanno fatto incetta di epigrafi. Le hanno scelte tutte dedicate a questo dio… Beleno… non so perché… ma allora il patriarca Giovanni volle che fossero sistemate tutte qui, intorno al cortile, ché fossero i piedistalli di altrettante meraviglie che il mondo antico ci ha consegnato… Ah il mondo antico… quando gli uomini non erano consapevoli dell’inutilità del vivere e ancora cercavano la bellezza e lottavano per la giustizia… E monsignor Giovanni l’ha voluta qui, incastonata sotto questa nicchia. Proprio qui. La vede? Su, si allontani… la vede?disegno porta

–  Ma dove devo andare?

– Indietreggi! Vada verso il portone che dà sulla calle… Ha idea di quanti viaggiatori illustri siano entrati in questo potente palazzo da quella porta nel secolo scorso e in quello precedente ancora? Bene, ora cosa vede per primo?

– Vedo solo questa pietra…

– No! Deve immedesimarsi in un viaggiatore francese del Seicento. Immagini che il cortile sia ancora pieno di ogni prezioso tesoro che lo imperlava…

– Certo, eccellenza! Ora vedo! Vedo che l’occhio cade immediatamente qui, su questa edicola… ma ormai non c’è più altro. Anche il bassorilievo che era sull’acroterio è stato divelto…

– Per carità! L’attuale miseria la vedo anche io! Non c’è bisogno che me la rammenti ogni minuto. Sono riusciti a portarmi via anche quello che i miei lontani parenti trattennero dopo la donazione di monsignor Giovanni. Lo sa che anche quest’ara sarebbe dovuta finire nell’inventario delle opere dello Statuario? Solo l’insistenza degli eredi di Giovanni e la fretta dell’allora procuratore Contarini permisero che rimanessero qui. Contarini voleva risolvere subito la faccenda per inaugurare il primo museo pubblico e veder onorato il suo nome (anche lui vi contribuiva con un certo lascito): fu così che fu permesso che rimanesse tutto ciò che era “infisso nei muri”. E come vede, questo gioiello è l’unico rimasto ancora incastonato… Ora lasci lavorare la memoria, l’immaginazione: la compiacenza dei miei parenti antichi che accompagnavano il visitatore straniero, straniato, stupito, che, con quel cantabile accento gallico, con curiosità chiedeva chi fosse quella bellissima figura femminile panneggiata che si ergeva pudica e potente su un tal piedistallo! Era la prima cosa che vedeva entrando da ruga Giuffa! Prima ancora del grande Augusto, ahimé, rovinato dal tempo e dall’ignoranza medievale dell’uomo, e prima ancora dell’Agrippa! Ahi l’Agrippa, che potenza, che maestà! Ma quella la lasciamo agli ospiti che arrivavano dall’acqua, agli ospiti veneziani, che tanto si atteggiano ad essere nobili signori e che invece si lasciano stupire solo per fama dalle dimensioni eroiche di una statua. No! Jacob Spon, ne sono sicuro, ha preferito soffermare qui il suo sguardo, sulla grazia, sulla delicatezza, sul panneggio così intimo e rassicurante della dolcezza femminile… per poi soffermarsi sull’iscrizione…

porta

– Signore, non vorrei… ma dovremmo tornare all’affare…

– Certo! Del resto anche lei, per quanto commerci d’arte, rimane pur sempre un mercatore, dominato dall’illusoria libertà del denaro…

– Eccellenza…

– Lo so. Ma non posso accettare così poco!

– Eccellenza! Se proprio non vuole, non è necessario che lei venda… però… non per essere subdolo, ma vorrei ricordarle che in città…

– Esseri maledetti! Lo so, la voce circola: ho qualche debito da saldare. Carogne! A partire dai miei parenti! Le serpi più velenose che il demonio abbia mai creato, progenie diretta del tentatore dell’Eden! Mi hanno trascinato in tribunale, per difendere quel che rimane del mio palazzo, del mio passato, della mia famiglia, della mia dignità… e ora volteggiano come avvoltoi su di me, che mi trascino ferito come un falco con l’ala rotta. Ah, un tempo questo falco li faceva sparire dalla volta del cielo! Pusillanimi, vigliacchi, ignoranti! Solo perché hanno avuto la fortuna dei francesi, di mettersi in affari con il nemico invasore! Che in nome della libertà, ci ha sottratto la libertà! E sono saliti sul carro del vincitore, per quanto esso olezzasse di sterco! E ora, insuperbiti da quel facile denaro, ci dileggiano e comprano quel che prima neanche apprezzavano, perché neanche conoscevano!

– Eccellenza, non vorrei… ma si sta facendo tardi…

– Sì, lo so, anche a lei interessa distruggere quel che rimane del mio passato…


pianta cortile 1apianta cortile 1b– Eccellenza, non è assolutamente mia intenzione! Però anche lei sa benissimo che i fornitori del suo palazzo non accettano compensi d’aria e bellezza… e con l’arte non sempre si riesce a sopravvivere, soprattutto oggi: oggi chi ha il potere economico non è più tanto interessato alle antichità; vuole rilassarsi in un bell’albergo del Chianti e mangiare il culatello. Si figuri se spende per l’arte! Guardi me… ho fatto di tutto per mettere in piedi questa attività ed educare mio figlio Davide alla sensibilità della bellezza: volevo che si emancipasse dai piaceri di un’osteria o di una vacanza sulle spiagge della Versilia, volevo che fosse migliore di me, che diventasse colto e raffinato, un po’ come voi… Ma lui ha già detto che non gli interessa, che non è questo il futuro, che altro è ciò che il piacere della gente cercherà. Così, quando toccherà a lui, venderà tutto al primo acquirente… orsù, lasciamo stare questi discorsi e pensiamo al presente. Mi dica come dobbiamo procedere per questa epigrafe…

– Senta! Non sono costretto a vendere, checché lei ne dica! Checché ne dica tutta la città! Ho già venduto molti pezzi a lei e a quelle altre sanguisughe di Weber e di Pagliaro. E qual è stato il risultato? In tutte le calli, in tutte le fondamente il mio nome è ricordato con compassione: “ah, il povero Grimani! Ha fatto fuori tutte il patrimonio della sua famiglia… povero Michele, non ha saputo trattare gli affari, ogni volta l’hanno raggirato… ma, che vuoi: ha bisogno di soldi, mica può campare di arte!!” e lì, via con una grassa risata sardonica! Ridono di me! Chi poi? Quelli che un tempo lavavano i panni per la mia casata! Perché ho venduto a voi e ad altri aguzzini pezzi della mia famiglia, pezzi della mia memoria, della mia vita!

– Eccellenza, penso che forse dovremo rivederci un altro giorno. Oggi mi sa che si sta facendo prendere un po’ troppo dall’attaccamento affettivo a queste pietre. E non è più lucido per discutere di affari. La lascio. Le farò giungere proposta di un nuovo appuntamento. Nel frattempo, pensi alla mia offerta. E soprattutto… pensi alle sue necessità. Vedrà che la cifra che le ho proposta non è poi così malvagia… La riverisco…

– Non è detto che stabiliremo un altro appuntamento. I miei ossequi.

Esce Richetti. Un servo.

– Signore, vengo ad annunciarle che la cena è pronta in tavola!

– Arrivo immediatamente!

cortile-palazzo-grimani_piccolo

SCENA II

Ibidem. Dopo cena. Michele Grimani.

PalazzoGrimaniCortile_piccoloCoff… Coff! Maledetta tosse! Aaahhhh fosse davvero solo tosse! Ho gettato ormai decine di fazzoletti sporchi di sangue… non potrò nasconderlo ancora a lungo! Le forze mi abbandonano, dirado le uscite in società, la notte non dormo… Sono vecchio. Penso che la mia inutile lotta contro la morte dovrà ben presto essere abbandonata e io sarò costretto a deporre le armi. Del resto perché difendersi? Da cosa? Tutti mi deprecano perché ho svenduto il patrimonio familiare. Ma che fare altrimenti? Volevo conservare almeno la dignità! Non mi va di farmi mettere i piedi in testa da queste facce ripulite! Un tempo il nome della mia famiglia era conosciuto e riverito: tutti al solo sentir nominare i Grimani, toglievano il cappello e chinavano la testa. E non era ricchezza: era una nobiltà nata dal rispetto, il rispetto dei nostri studi, della nostra sensibilità. La mia famiglia si distingueva perché conosceva l’arte, il sublime, la perfezione. Ma ora nessuno considera più questi valori. La ricchezza li ha comprati e chi prima spalava terra nei curvi vigneti di Miane, ora brinda nei nostri calici di cristallo, sciommiottandoci e volendo insegnare a noi il lusso… il loro lusso, che non sa distinguere un mitreo dalla tomba degli Scipioni e che va a vedere il Partenone solo per moda e per esclamare infantilmente: “oh-che-bbello”… Ho dovuto trovare i soldi, molti e in fretta. E ho fatto un sacrificio che nessuno conosce. Tutti pensano che siano state la mia avidità e la mia dissennatezza a determinare il dissesto finanziario della mia casa, che io con leggerezza abbia venduto i beni di famiglia. Ma che ne sanno??!! Aveva ragione Richetti: oggi tutto ruota intorno al denaro. E io, che sono cresciuto nel culto dell’humanitas terenziana e dell’aurea mediocritas oraziana, sono stato cacciato dal mondo: credevo nell’ambizione della serenità campestre, nella solidarietà tra esseri che vivono la stessa sfortunata condizione umana, nel culto della conoscenza. Invece ora il centro è il danaro. E io, di denaro, non ne ho più. L’ho dovuti cercare per rispondere agli assalti di questa avida società. Ho tentato persino di vendere questo meraviglioso Agrippa a chi avesse offerto il prezzo più alto; ho contattato per questo le diplomazie più facoltose, a Roma e a Vienna, ma poi il governo di Venezia mi ha fermato, riesumando l’antica donazione del Patriarca. Non l’ho fatto con piacere, anzi. Per questo nel mio testamento ho deciso di abbandonare la controversia e di lasciarlo partire per il Fondaco dei Turchi, appena io non ci sarò più. Perché tutti possano vederne la maestà e il mio nome non sia poi così infangato. Perché nessuno sa con quale strazio sono stato costretto a veder svuotare questo cortile! Ho chiuso gli occhi quando le mie dita vergavano la firma sotto quegli atti di vendita. E di là, da una tribuna già vuota, assistevo all’asportazione di statue, rilievi, epigrafi, dietro a un vetro, per non far vedere le mie lacrime, strizzate dallo stesso cuore! Ora il cortile è freddo, vuoto. E nessuno sa come forse più vuoto è solo il mio cuore…

(dal buio risponde una voce)

– Tutti forse no, ma io sì! Io ricordo come correvi da piccolo intorno alle statue; come dall’alto ti chiamava la balia per farti andare a letto, e come solo con molto fatica il maestro delle cerimonie riusciva ad acciuffarti dopo averti a lungo inseguito sotto questi porticati. Io ti vedevo e sorridevo…

– Sì, andavo fiero della mia casa. E ogni piccolo angolo mi inorgogliva. Sì! Ero orgoglioso di sentire il mio vecchio padre che raccontava con fierezza lo stupore di Montfaucon dinnanzi al bassorilievo con Bacco ebbro, mio nonno che pure, vero e proprio istrione, non era poi così appassionato d’arti figurative… Mio padre mi raccontava sempre le lunghe sessioni nello studio, dove si chiudeva per ore coi funzionari della ormai moribonda Serenissima per contrattare l’acquisto della testa di quello splendido giovane e di quel virile Mercurio, opere già dello statuario pubblico che assolutamente voleva tornassero nella tribuna. Io non lo ricordo, perché ero troppo piccolo, ma una volta venne anche mio cugino Antonio Grimani di S. Polo per contrattare la compravendita della collezione stimata con una perizia di Arrigoni. Così mio padre ha arricchito la nostra collezione. Io no, non ne sono stato capace. Per questo anche mia madre mi ritiene buono a nulla. Lei, le ultime sostanze le voleva profondere per acquistare ancora qualcosa. Mentre io… io prima avevo grandi progetti: avrei voluto restaurare la facciata del palazzo, abbellire gli spazi del cortile e rimpinguarli di bellezza antica, come una volta, prima della donazione del patriarca, nel Cinquecento. La vede quella parete lì? Quella adiacente all’ingresso di Rio S. Severo… ora è spoglia; ma io l’avrei riportata alla ricchezza di un tempo, quando ostentava una teoria di antichi marmi a chi sbarcava dall’acqua. Di certo non la nascondevo, non facevo mica come fecero con Montfaucon! Sa cosa combinarono con quell’illustre visitatore francese? Non gli permisero di salire sulla Tribuna, ancora vuota perché trascurata da mio nonno Michele. Ai servitori era stato imposto di riferire che le chiavi di quelle stanze erano andate perdute. Ma… lo sappiamo tutti: quelle stanze avrebbero deluso i visitatori che si aspettavano di vedere lì, risorto, un pezzo del mondo di Livio, come era ai tempi del patriarca nel Cinquecento. Per questo i miei avi tenevano quelle stanze deliberatamente chiuse… Io, invece, non ho tenuto nascosto questo spazio ai visitatori per poi rivelarlo un domani pieno di splendore. Io già avevo espresso orgogliosamente i miei progetti di arricchimento del cortile sia a Moschini sia a Thiersch. Io avrei viaggiato: Ruvo, Egnazia, Taranto, Metaponto.. e abbagliato dal sole della classicità, avrei fatto incetta di reperti raffinati per scaldare questa acquitrinosa e ingrata città. Si sa, lì le autorità non vigilano sugli scavi e sarebbe stato facilissimo entrare in possesso di qualche meraviglioso pezzo magnogreco… ma i soldi. Maledettissimi soldi! Oggi comandano loro. E chi ne ha, gonfia il petto… ma non conosce la grandezza della sensibilità per la bellezza. Io. Io avrei voluto essere ricordato. Come mio padre, come il mio antico parente. Io, l’ultimo dei Grimani, che l’intera Venezia ammira, per… per aver… non lo so… evocato le meraviglie antiche della saggezza…

(entra un’ombra)

– E poi?

– Cosa “poi”?

– E poi? Tu importante, tu riverito, tu onorato e ricordato. Come me? Per far cosa?

– Lei? Chi è lei? Che ha fatto? Da dove viene? Perché è restato là ad ascoltare le pene di una sconosciuta anima sofferente, che racconta al primo che passa, i tormenti del proprio animo?

– Io ti conosco molto bene, invece. Non sono un passante, potrei dire che sono uno di famiglia, che esce a girare per questo cortile tutte le sere, quando il quadrato di cielo disegnato da questi tetti si imbruna e prende ogni volta un colore diverso. Io ho sempre passeggiato qui, anche quando hai iniziato a congedarti dai pezzi di questo secolare museo. Ho passeggiato qui anche quella volta in cui tu ti eri ritirato nelle tue stanze, alla fine di una sofferta contrattazione per cercar di vender all’imperatore d’Austria la statua dell’Agrippa, che invece era già di proprietà della Serenissima. Mi sono tante volte appoggiato alla statua dell’Augusto, per vederti correre su per gli scaloni, richiamato dalla balia, quand’eri un puteo. Mi sono aggirato per questi portici già quando tu, tuo padre e tuo nonno, ebbri di orgoglio, ascoltavano i complimenti dei visitatori. Sono venuto qui secoli fa e ogni sera esco e prima di contemplare i segreti della lotta contro il tempo, leggo di me e del mio patrono, davanti a questa nicchia. E sorrido. Perché in fondo sono riuscito ad ottenere ciò che volevo, seppur in modo completamente diverso da quel che pensavo. Avevo un desiderio pungente, forse aizzato da tutta una società, forse condiviso da tutta la società. In una corsa senza senso…

– Qual era il suo desiderio?

– Vedi questa stele? Sai di chi è?

– Certo è di Diocle. Sa quante volte mio padre mi ha fatto leggere e tradurre da bambino queste parole? E mi scioglieva le abbreviazioni. E io lo ascoltavo, lui che mi appariva tanto vecchio e saggio… e poi prima di cena, tornavo da solo e passavo le dita nel solco delle lettere… quante volte…

Apollini

Beleno Aug(usto).

In honorem

C(ai) Petti C(ai) f(ili) Pal(atina)

 Philtati, eq(uo) p(ublico),  

praef(ecti) aed(ilicia) pot(estate),

praef(ecti) et patroni

collegiorum

fabr(um) et cent(onariorum),

Diocles lib(ertus)  

donum dedit.

L(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum).

“Il liberto Diocle ha fatto un dono ad Apollo Beleno Augusto, in onore di Gaio Pettio…”

– Sì, io, Diocle. Perché ero tanto riconoscente a Pettio: mi aveva affrancato. Io, schiavo di origini siriane. Figlio di schiavi, nipote di schiavi. Eppure ormai completamente romano. Non conoscevo più neanche il greco. Solo il nome mi era rimasto. Avevo studiato il latino, sapevo scrivere; ormai tutti sapevano leggere e scrivere ad Aquileia agli inizi del III secolo. Ma io in più conoscevo da autodidatta anche Virgilio e Orazio. E il mio padrone ne era contento, anzi mi stimava, perché anche lui sapeva cosa significava conoscere la letteratura: la parola artistica apre l’animo, fa fremere i precordi, e instrada sulla via della conoscenza. Non una qualsiasi erudizione, ma fa scoprire i più profondi recessi dell’uomo. E’ questa la vera conoscenza. Avrei voluto anche io imparare a scrivere poesie, perché la poesia eterna il palpito del pensiero e immortala chi ne è stato scosso. Ma non ne sono stato capace. Però quando il mio padrone volle donarmi la libertà, bene: non ho voluto che ciò fosse taciuto. Doveva vedere la mia riconoscenza, anzi, la dovevano vedere tutti; e la dovevano vedere per sempre. Tutti avrebbero dovuto ricordare me e le benemerenze di Gaio Pettio Filtato, cittadino romano della tribù Palatina, cavaliere romano, prefetto con potere edilizio, prefetto e patrono del collegio dei fabbri e dei centonari. Chiunque passasse per la via doveva leggere il mio nome e farmi tornare in vita. E insieme con me anche il mio patrono doveva ricevere gli onori che meritava; ecco perché, quando mi ha liberato, mi sono ripromesso che la sua e la mia memoria dovessero rimanere eterne! Lui un grand’uomo agli occhi miei e agli occhi di tutti. Avrei eretto un monumento in suo onore…

– Tu? Tu sei…

– Sì, io in persona. Credi forse che non ne avessi i mezzi? Non ero l’ultimo degli schiavi! Pensi che ad Aquileia gli schiavi fossero solo quelli addetti alle macine del grano? O semplici stradini che sanno a malapena l’alfabeto per rimettere i conci di basalto nell’ordine con cui erano stato asportati? Mio padre ha diviso tra noi figli una buona somma in eredità. Io, dal canto mio, ho potuto far fruttare le mie conoscenze come magister: mi mettevo in un angolo del foro e accettavo il pagamento di ragazzi che volevano imparare a leggere, scrivere e far di conto. Non sono solo diventato un uomo libero per l’amore e l’ammirazione che il mio padrone provava verso di me, ma anche un uomo rispettato nel mio quartiere grazie a quanto mi sono guadagnato. Il denaro mi ha permesso di non esser vilipeso dalla mia città; certo, ho dovuto prostituire la mia musa venalis: ho chiesto soldi per il mio insegnamento. Inizialmente ne avrei fatto a meno: mi piaceva far scoprire a quei ragazzi entusiasti il tesoro che celavano quei segni scritti sulle tavolette. E andavamo per la piazza e loro, contenti, decifravano tutte quelle inutili scritte pitturate sui muri: fantocci politici che si fanno la guerra pur di scalare le vette del potere, per ricoprire incarichi prestigiosi e provare l’ebrezza del comando e della fama. Perché si sa: un politico non si arricchisce per il guadagno del suo incarico, ma per i contatti che esso porta ad avere…

– Lo so benissimo. Anche qui a Venezia è così. Lo era quando eravamo Stato autonomo. Lo è ancora oggi, dove tutti ora leccano la strada per l’annessione all’Italia… Ma continuami a dire di te…

– Sì, le ore volavano a insegnare. Soprattutto all’inizio, perché mi piaceva. Era il mio modo per divenire immortale: io non mi sentivo un operaio della parola. Io partecipavo i ragazzi dei miei entusiasmi, perché volevo che anche loro, come me, trattenessero le lacrime al leggere lo sguardo algido dell’ombra di Didone volta e la sua fuga tra le braccia di Sicheo. Avrei lasciato questo dopo la mia morte: un po’ di me in ogni ragazzo che imparava. E non ho mai guardato lo gnomone della Basilica per calcolare il più piccolo obolo con cui essere pagato. Ma mi dovevo far pagare. Perché non è la conoscenza che dava rispetto ad Aquileia, ma il patrimonio. E purtroppo iniziai a crederci anche io, in fin dei conti… Essere qualcuno perché si ha qualcosa, perché si fa qualcosa. In questo credevo: superare l’annientamento della morte in una gara con gli altri uomini, a chi avesse acquisito più memoria. Stupide formiche che lottano per costruire un formicaio più grande di quello delle altre e non si rendono conto che la tempesta lascerà ben poco delle une e delle altre! Allora promisi. Ed ho mantenuto. Una volta che è cominciata la mia vita da civis, sono andato dai decurioni e ho depositato la domanda. È bastato pochissimo tempo: la burocrazia è velocissima quando la si unge con ricchi doni. E la cancelleria del Senato si è espressa: mi è stato concesso un lotto di terreno proprio dove volevo io, sulla strada pubblica che portava al tempio del dio della città, quel grande dio che aiuta chi soffre nel corpo e sostiene chi vuole migliorare le condizioni della propria vita. Quel dio che i Galli narbonesi – Romani per modo di dire – hanno sempre sulla bocca, quando imprecano. Inizialmente volevo far erigere a lui una statua in bronzo: un meraviglioso giovane che fa del bel fianco colonna. Lo so: Beleno va rappresentato così. Ma il mio artefice l’avrebbe fatto più bello ancora… giovinetto

– Ho presente come doveva essere: ho visto una volta un bronzo, il cosiddetto giovane di Magdalensberg. Era bellissimo: il braccio alzato faceva contrarre leggermente il bicipite, che armoniosamente si inseriva in una muscolatura tonica, ma non enfiata; non i seni prominenti di un Eracle farnese, ma la dolcezza liscia della carne viva, della pelle elastica. E poi lo slancio! Quella figura mirava lontano, mentre io facevo correre lo sguardo molto più vicino, su quel suo corpo, soffermandomi sulle parti che un tempo si lasciavano guardare e che ora una ottusa censura, che permeò persino l’illuminatissima e indipendentissima Repubblica di S. Marco nella sua agonia, ci nasconde come peccato, come infamia, come dannazione eterna… Doveva essere così Beleno?

-Certo! Lo volevo proprio così. Lucente su quella strada che portava al tempio del dio epicorio. Però il lotto non era tra i più visibili. Del resto, non sono stato l’unico a ringraziare il dio per la protezione accordatami. Ma soprattutto non sono il più abile a sgomitare e brigare per accattivarsi i favori di chi passeggia tronfio tra le aule della Basilica e i porticati del Foro. Con una certa invidia e un certo risentimento rinunciai alla statua e feci erigere un semplice altare votivo. C’era chi aveva più possibilità di me, ma io avevo più possibilità di altri e la mia ara comunque poteva essere di ottima fattura…

beligna

– Quindi anche tu avevi una posizione economica riguardevole…

– Aquileia, secoli fa, era una città ricca, una metropoli. Forse proprio come oggi Parigi o Londra. Arrivava gente dalla Annia e dalla Postumia. Non sto a contarti le navi che provenivano da tutto il Mediterraneo e che approdavano al porto con gli oli spagnoli o il frumento egiziano… Correvano merci. E insieme a loro fiumi di denaro. Era difficile non fare fortuna ad Aquileia. Anzi, l’essere ricco non bastava per distinguersi. Bisognava essere molto ricchi. Poi penso che tu lo sappia come funziona: si perde la cognizione della realtà e della vera consistenza delle cose. Io ammiravo il mio patrono. Lo stimavo come lo stimavano molti in città. Lui sì che aveva una fortuna. E la sua famiglia, anch’essa di origine servile, già da generazioni vantava la cittadinanza romana nella tribù Palatina, dove venivano ascritti i liberti. Ma la sua posizione ormai era consolidata nell’élite aquileiese: poteva vantare il rango di Cavaliere pubblico e anche una non ignota carriera politica. Allora l’ammiravo incondizionatamente: vedevo la sua ricchezza e la invidiavo; invidiavo soprattutto l’abilità con cui, eredità familiare, tuttavia egli la coltivava e l’accresceva. Eppure non era solo questione di denaro: voleva qualcosa di più, forse ambire ad entrare nel novero degli uomini importanti ad Aquileia. E così essere ricordato. Ecco perché lo guardavo con ammirazione. Ammiravo soprattutto la sua sicurezza nel brigare, nel costruire relazioni sociali. Sapeva come fare per consolidare il consenso pubblico. Dapprima si fece appoggiare da collegi di lavoratori: entrò nelle grazie di una delle associazioni non tra le più potenti e ricche, ma diffuse capillarmente e comunque ben viste in società: i fabbri e i centonari. Si sa: i fabbri realizzano oggetti di uso quotidiano e nel tessuto sociale sono richiestissimi. Ma soprattutto i centonari hanno visibilità in città: le loro coperte li rendono eroi tra la popolazione, perché gli incendi possono svilupparsi in qualsiasi momento tra strutture prevalentemente lignee. Non abbiamo mai avuto incendi mastodontici come quelli romani dell’età augustea o, peggio ancora, neroniana. Ma, sai, i piccoli incendi sono frequentissimi e i centonari sono visti come i salvatori del popolo. Il mio patrono iniziò ad avere relazioni con loro, coi loro esponenti di spicco. Si fa così: una focaccia mangiata in compagnia, una passeggiata nel foro, poi qualche elargizione, qualche spesa sostenuta in nome della corporazione… e zac! Ha ricevuto il titolo di patrono. Solo un titolo onorifico, dirai tu, pagato fior di sesterzi… eppure quella riconoscenza prima e poi proprio la carica di prefetto nell’ordine, gli hanno permesso di aver una maggiore diffusione della propria fama presso la popolazione cittadina. Mica stupido Filtato! Con quel cognome grecanico oramai pienamente integrato nell’antica famiglia dei Petti – una famiglia di origine etrusca – poteva presentarsi alla città come un cittadino romano di comprovati costumi, di lunga tradizione familiare, un vir bonus, benefattore del popolo! Sapeva quel che faceva. Era determinato nello scalare il cursus cittadino. E infatti, poco tempo dopo, zac! Eletto come prefetto con potere edilizio. Proprio l’anno in cui la carica ufficiale era stata assegnata all’imperatore. Era praticamente come dire: tiè, occupati tu degli affari della città! Un imperatore accetta con grande riconoscenza di rivestire una carica cittadina, ma è chiaro che ciò rimane a livello onorifico. Ecco perché il sostituto, ovvero il prefetto, poi di fatto si assume tutte le incombenze. Ma anche i vantaggi. Il prefetto edile ha un potere indefinito perché può gestire il proprio denaro per la città: feste, manutenzione delle aree e degli edifici pubblici… insomma ha tutta una serie di appalti da assegnare… improvvisamente i migliori clienti della città divennero gli amici di Pettio o, persino, le sue stesse imprese. I ricchi più ricchi, anche all’epoca, erano coloro che facevano affari con Pettio! E lui otteneva quel che voleva: fama ed immortalità. Sì, lo ammiravo. Perché la sua villa era lussuosissima, perché gli oggetti di cui si circondava erano i più raffinati, perché partecipava a feste, si divertiva, viaggiava. Non era un uomo stupido: sapeva parlare di affari, di equilibri politici; amava cucinare e, a suo modo, era generoso; mi invitava alla sua tavola, ma tante volte anche mi disse: lascia stare, andiamo a mangiare qualcosa fuori, offro io. E io chi ero, se non uno schiavo? Abbiamo parlato tanto, come se fossimo amici… però era triste. Aveva tutto quello che voleva. Ma voleva di più. E più lo otteneva, più era insoddisfatto. Si arrabbiava per stupidaggini, non ammetteva il suo malessere di fondo e lo riempiva con festini, donne, ragazzi, soggiorni lussuosi nelle più lontane regioni, l’Asia, l’Egitto, dove, si sa, puoi godere di tutti i piaceri che vuoi. Ma una volta mi disse: “sai, tutti erano lì per cercare una bella efesina che avrebbe facilmente acconsentito a dare piacere a un nobile romano. Ma io no, non vado a far vacanze per sesso. Io passai tutta la notte a chiacchierare con Taide, la ricca padrona del postribolo”. Non era stupido il mio patrono, ma non era felice. Cercava ancora qualcosa, pur avendo tutto: denaro, divertimento, posizione sociale ben in vista… e io lo ammiravo. Lui sarebbe stato ricordato come un insigne cavaliere della città. Lui sarebbe stato ricordato. Ricordato da tutti quelli che sarebbero venuti dopo di noi. E io avrei contribuito a questa fama, con questo altare. Un’ara per Beleno, perché in fondo è lui il dio che protegge l’ascesa sociale, che esaudisce i nostri desideri di miglioramento della condizione economica; come un tempo proteggeva il miglioramento della nostra salute… (scompare)

– Sì, la memoria. La memoria di sé. Per superare il nulla della morte… compiendo più o meno grandi imprese, lasciando ai posteri il ricordo delle cose fatte in vita…

SCENA III

Ibidem. Una seconda ombra e detto.

– Sì, quella memoria che tu stai cancellando…

– Ma come? No, non è vero!

– Certo, perché pian piano stai alienando ogni piccola azione che tuo padre e i tuoi avi fecero, quando hai iniziato a asportare il patrimonio di memoria che sono stati questi marmi… non solo memoria di una grandezza anonima, ma anche di ogni gesto, ogni sguardo, ogni sussulto che tuo padre e gli altri ebbero nello scegliere i pezzi, nel contrattare l’acquisto, nell’attesa dell’arrivo, nel lavoro di scarico e posizionamento (o di spostamento, per i marmi della prima collezione…), nel passeggiare di notte, come ora tu stai facendo, sotto lo sguardo di nessuno… tutte cose della vita, che non possono resistere al regno della morte, se non nei segni che tu ora stai cancellando…

– No, non saranno dimenticati! Io li custodirò, nella mia memoria, nel mio cuore…

– Tu? Ma dove vuoi andare tu? Ogni sera i colpi di tosse si fanno più frequenti e cavernosi. E le serve faticano sempre più a cancellare le macchie di sangue dai fazzoletti… Non lo potrai tener ancora nascosto… E dato che conosci il tuo futuro, ti sei voluto sbarazzare del tuo passato, godendoti i proventi, mentre hai privato noi della memoria. Perché stanotte io passeggio, qui, sotto questo porticato che si apre a destra dell’ingresso del palazzo. Ma non posso più leggere il mio nome. Perché io sono finito in chissà quale collezione austriaca, venduto da avidi mercanti. Non posso più leggere il mio nome e, leggendolo, farlo rivivere ogni volta…

cortile 2

– Qual era il tuo nome?

– Io ero Mansuezio Vero. Anche se non tutti capivano bene il mio nome e leggevano erroneamente Mansueto. Sì, colpa dell’epigrafe, rovinata dal tempo, per cui sia Manuzio il giovane, sia Gudio, sia Capodaglio storpiarono il mio nome. Ma c’ero abituato già in vita. Il mio non era un nome consueto e tante volte ho dovuto correggere i documenti dei pubblicani. Chi conoscevo con una stretta di mano, lo lasciavo nella sua convinzione. Tanto Mansueto o Mansuezio… che fa? In fin dei conti, i nomi sono purissimi accidenti… Eppure ogni notte io passeggiavo qui, in questo porticato, proprio qui, leggevo il mio nome e mi sembrava di rivivere, perché immaginavo che qualcuno durante il giorno, che ne so, un servo o un mercante di stoffe in visita per esigere il suo compenso, si fosse fermato e avesse letto di Mansuezio Vero e di sua moglie Vibiania Iantulla. E si fosse chiesto chi fossimo e, magari, avesse fantasticato sui nostri lineamenti e su come trascorressimo le nostre giornate… Ma tu, per egoismo, mi hai privato anche di questa consolazione. E oggi passeggio tra queste colonne osservando i vuoti lasciati sui muri dai rilievi divelti e le ombre sul terreno dei dadi con le epigrafi a Beleno… Mi hai privato anche di questa memoria e mi hai condannato ad una seconda morte, questa volta definitiva…

– Non puoi accusarmi di questo! Il denaro mi serviva. E non ho venduto la collezione di mio padre con e per piacere! Anzi ho dato via me stesso con essa! Io c’ero quando la arricchiva e la disponeva in modo nuovo, proprio in questo cortile! Mi ha insegnato ad amarla! E io la ammiravo come qualcosa che sarebbe dovuta durare in eterno ed eternamente dar lustro alla nostra famiglia. Da giovane immaginavo che anche io l’avrei arricchita. Non tutti sanno che sono stato io, quando ero giovane, a comprare i vasi dei Nani, e non mia madre, che pure mi ha consigliato e mi ha accompagnato nella trattazione… Io ci credevo, nella bellezza antica. Perché conoscere gli antichi era conoscere l’uomo. E conoscendo l’uomo, non si può più essere nemico l’uno dell’altro. Perché tutti possiamo essere l’altro che non conosciamo. E’ questo che mi ha insegnato mio padre passeggiando con orgoglio tra queste meraviglie. Noi Grimani lo sapevamo, non i ricchi mercanti inglesi o austriaci che piano piano compravano la nostra città. Io ci credevo. E credevo che il nostro nome e la nostra gloria potessero ancora risplendere in Venezia. Ma adesso guardami: chi sono? E a che serve continuare a fare ciò: spendere la vita per mettere da parte. E poi? Mio padre diceva: “poi, quando diverrai proprietario del palazzo… poi quando prenderai queste cose in eredità…” insomma aveva me. Io ero la sua ragione, io la sua eternità. La morte non esisteva più per lui, perché egli avrebbe continuato a vivere in me. E tutto ciò che faceva aveva senso perché era per me. Ma io? Io non ho nessuno. Perché la vita mi ha condannato a cercare un senso, o un’illusione di esso, non nella progenie. Perché a me è vietato aver un figlio, perché mi è stato vietato aver una moglie. Il mio corpo è un tiranno crudele che allontana le donne che mi cercano e cerca il piacere altrove. In qualcosa o qualcuno che non può dare una continuità alla mia generazione e che è perverso, perché è un sistema senza regole e senza il principio del giusto. Ma è mio e non lo posso negare. Devo accettarlo e soccombere ad esso. Dunque non avrò mai un figlio, non avrò mai una ragione esterna di vita. Dovrei trovarla in me… ma penso che tutto sia effimero. E ormai è tardi… Tu, almeno tu hai avuto una moglie!

– E’ vero. E ci volevamo bene. La nostra vita non era male. E godevamo anche di un certo benessere, nonché di un certo rispetto sociale. Ero contento. Ma forse anche io un piccolo errore l’ho compiuto. Ti ricordi quello che feci scrivere sulla faccia anteriore del mio altare?

– Sì, lo ricordo! L’ho letto tante volte!

Beleno.

Mansuetius

Verus,

laur(ens) lav(inas),

et Vibiana

Iantulla

v(otum) s(solverunt).

“A Beleno. Mansuezio Vero, laurente lavinate, e Vibiania Iantulla hanno assolto un voto”. Quale errore hai compiuto? La preghiera era giusta, se è stata esaudita…

– Certo, il dio è benevolo anche quando non siamo perfettamente puri nelle invocazioni. E ci esaudisce, pur lasciando nell’oscurità le vere ragioni dei suoi piani. Io avevo chiesto all’augusto Beleno di permettermi di entrare nel sacro collegio dei Laurenti Lavinati. Tale carica religiosa mi avrebbe permesso di dare un rilievo sociale al mio benessere economico. Lì ad Aquileia avevo un buon reddito; ero stato pienamente ammesso nell’ordine equestre. Insomma, dovevo essere un uomo felice: avevo una moglie che mi amava e un buon mestiere che mi assicurava un buon livello di vita. Ma si sa, l’uomo non si accontenta. C’era ancora qualcosa che cercavo e che non mi dava pace. Una realizzazione, qualcosa che potesse darmi una memoria altisonante, che desse un rilievo alla mia anonima vita quotidiana… ecco! Avrei potuto dare alla mia fede una funzione pratica e con essa essere conosciuto in tutta la città! Sono sempre stato un buon fedele: ho partecipato a tutti i riti della città e non ho mai mancato di celebrare anche le divinità della famiglia. So che Era, Giove, Venere non sono come la tradizione mitologica racconta. Credo però in un essere divino superiore, una Ragione che sottende le cose e che dà senso a tutto nel tutto. In città arrivano molti culti: Mitra, Iside, Cresto… Non mi sento di dire che sono culti sbagliati. In fondo chi conosce veramente le cose divine? Insomma, credo in un dio che dà senso alle cose e credo che dedicare tempo al suo culto, in una qualsiasi sua forma, sia riconoscere che qualsiasi cosa noi facciamo sia subordinata e acquisti senso in un essere eterno. Divenire sacerdote mi avrebbe potuto dare un vanto non tradendo il mio essere. Allora feci richiesta in numerosi collegi religiosi, ma sembrava che si potesse entrare solo dietro… diciamo… un aiutino… Ai miei tempi, ricoprire una carica religiosa dava lustro e fama. Una carica religiosa mi permetteva anche di presentarmi non come un anonimo lavoratore benestante, bensì come una persona ragguardevole, magari con un titolo. Ad Aquileia, però, non è sufficiente essere bravi per ricoprire posti di merito. Puoi lottare, impegnarti, studiare, ma alla fine solo chi sa brigare di più riesce a ottenere i posti tanto ambiti. Non ci vuole solo bravura, ci vuole faccia tosta: bisogna andare dalle persone giuste e rendersele amiche, incalzare, chiedere, sorridere, racimolare non per propria passione, ma per utilità. La bravura, se silenziosa, non vale niente. E io non ero fatto per lottare e viaggiare tra tutti questi vasi di bronzo; avevo sempre fatto il mio, con dedizione, nella miglior forma possibile, ma l’avevo presentata come il misero frutto di un onesto lavoratore. No, sbagliato: bisogna vendersi più di quel che si vale. E così ogni porta mi era chiusa; venivo sempre scavalcato non da quelli più bravi di me, ma da quelli più traffichini… Ho sperato, ho creduto. Ho domandato allora al dio della promozione, Beleno. Mia moglie Vibiana mi è sempre stata vicino, anche lei c’era nella celebrazione delle invocazioni e delle libagioni al dio. Bene, Beleno mi ha ascoltato. E io mi fido, perché anche lui fa parte di quella ragione che muove le cose; e le cose mosse hanno un senso, anche se imperscrutabile. Altrimenti il nostro vivere è vuoto e ogni nostra azione si arena. Bene, un amico un giorno mi si avvicina nel calidarium e mi annuncia la notizia: il collegio dei Lavinati mi aveva accolto. Certo, avevo fatto ricchi donativi per il culto, ma diciamo che anche altri sacerdoti di altri culti li avevano accettati senza che le mie richieste avessero seguito. Non potevo sperare di meglio. Il culto dei lavinati veniva celebrato ad Aquileia da più di due secoli, perché la città fu tra le prime ad adottarlo dopo la sua istituzione a Roma all’inizio del principato. E sia in Venezia, sia in Istria era molto diffuso. É un culto che ricorda la fondazione di Roma e i rapporti che gli antichi avevano coi popoli latini. È un culto più legato alla tradizione e alla politica, lo so, che alla reale fede che mi muove. Però è prestigioso. E io l’ho voluto ricordare, quando per sciogliere il voto a Beleno ho eretto quell’altare. (scompare)

– Sì, quell’altare che io ho venduto qualche anno fa a quell’aguzzino di Consiglio Richetti. Per molte settimane è rimasto lì, davanti alla vetrina del suo negozio a Ca’ Garzoni, a S. Samuele. Poi un giorno non l’ho visto più e candidamente mi ha detto che l’aveva venduto alla contessa austriaca della famiglia Zichy: ora non avrei dovuto preoccuparmi perché il pezzo sicuramente era ammirato nel cortile di qualche palazzo imperiale. Che bastardo! Con quel suo sorriso falso e malizioso… e ancora ora mi sta col fiato addosso per sottrarmi le ultime opere che sono ancora legate a me… Lo so, mi dispiace, non era mia intenzione cancellare la tua vita, la tua memoria… ma dove sei? Dove siete? Non lasciatemi anche voi solo. Siete l’unico lembo della mia storia, della mia vita… cosa rimarrà di me, quando io non ci sarò più? Che fine farà questo palazzo, la memoria dei miei avi, la mia? Forse la ricorderanno, sì, ma per odiarla, perché ho smantellato il museo Grimani. E mi dipingeranno come un incapace, un libertino spendaccione, un mentecatto manovrabile e disastroso negli affari… ma non sarà la verità! La memoria mente, perché seleziona, e non conosce quello che realmente è stato. Paradossalmente il ricordo continua a far vivere un essere che non è mai stato e cancella quello che realmente è esistito. Cosa è giusto allora che rimanga di me? Forse solo questo quadrato di cielo che i tetti di questo cortile disegnano scuro. Lì è la risposta a tutto. In questo muto, eterno silenzio di magnifiche stelle.