“Sembra proprio che il tempo rifletta il mio umore” disse sottovoce Lucio notando il cielo plumbeo, quasi come se quel pensiero ridondante avesse finalmente trovato lo spazio per uscire dalla sua testa. Roma gli era sempre piaciuta, aveva sempre guardato con occhi pieni di ammirazione quelle statue, quei monumenti e quegli edifici che da secoli si stagliavano nel Foro della capitale dell’Impero. Eppure, nel cuore della città più grande del mondo, in cui almeno un milione di persone rendevano inagibili quelle strette viuzze ostruite da bettole con brocche incatenate alle colonne, dove sembrava che i barbieri quasi rischiassero di tagliare i passanti e che i pretori camminassero nel fango per evitare di essere travolti, non si era mai sentito così solo. A Lucio Mussio Trofimo non mancavano le ricchezze, certo non paragonabili a quelle dell’imperatore, ma che gli consentivano di vivere una vita agiata, cosa che all’epoca non era un beneficio concesso a tutti. Eppure, ciò che gli mancava di più era la sua fortuna più grande. Ma non volle pensare ancora a questo. Ne avrebbe sicuramente dovuto parlare di nuovo nel corso di quella grigia giornata e preferì risparmiarsi un ulteriore tentativo nel celare le lacrime a due passi dal luogo più affollato di Roma.
Percorrendo il vicus Tuscus raggiunse il centro del Foro, costeggiò il tempio del Divo Giulio e arrivò nei pressi della Basilica Emilia, in cui si trovava la bottega che tanto gli era stata consigliata e che, ironia della sorte, sembrava quasi descrivere la parabola di questa sua ricchezza ormai sfumata: da una parte riusciva a vedere il Foro di Augusto, eretto da quella persona che per certi versi aveva permesso che tutto ciò avvenisse; dall’altra, invece, si aprivano in serie le Tabernae Novae, chiamate anche Tabernae Argentariae per la notevole presenza di banchieri e cambiavalute. Proprio qui Lucio avrebbe dovuto fare i conti con la realtà e realizzare che ormai era rimasto solo.
“Salve” esordì Lucio entrando nella bottega, il tono era abbastanza distaccato, pur sempre mostrando il dovuto rispetto, “sto cercando un certo Quinto Suburano”.
“E l’hai trovato” lo interruppe un ragazzo molto più giovane di lui, impegnato a scolpire una statua che, se Lucio non avesse visto la sua realizzazione in corso d’opera, per quanto il mondo dell’arte non l’avesse mai attratto, avrebbe datato ad almeno qualche centinaio di anni prima, “mio buon?”.
“Lucio, mi chiamo Lucio Musssio Trofimo, sono un amico di Marco Digizio, dice che sei uno dei migliori marmorarii di Roma, proprio per questo”
“Ah Marco” esclamò Quinto interrompendo nuovamente e facendo cadere gli attrezzi di lavoro, cosa che stupì Lucio e gli fece dimenticare l’insolenza del ragazzo “sempre esagerato nei complimenti, ma mai puntuale nei pagamenti. E dimmi, Lucio Mussio Trofimo, sei l’ennesimo messaggero mandatomi per ritardare il mio compenso perché il tuo amico, e ripeto, tuo!” disse sottolineando l’ultima parola, mentre Lucio iniziò a pentirsi di aver dato ascolto a quel consiglio senza nemmeno aver fatto domande “Marco Digizio, non ha il coraggio di recarsi da me di persona? Ha per caso paura del mio martello, o forse del mio scalpello?”.
“Nulla di tutto ciò” intervenne Lucio quasi con le spalle al muro “sono venuto per commissionarti un lavoro, guarda” disse mostrando a Quinto una borsa in cuoio che, non appena venne appoggiata sul banco di lavoro, emanò il suono tipico dei sesterzi che si urtano tra loro. Il giovane marmorarius prese la borsa, l’aprì per verificarne il contenuto e, dimenticando per un momento il suo lato di artista e rivestendo il ruolo di uomo d’affari, ne fece una rapida stima. “Qui devono esserci almeno un centinaio di sesterzi, non molto in proporzione alle mie capacità”.
“Si tratta di un anticipo” intervenne prontamente Lucio, consapevole del fatto che sì, aveva accettato il consiglio di Marco, ma sotto sotto lo conosceva bene e immaginava che molte delle opere che ornavano la sua piccola insula probabilmente pesavano sulle tasche di qualche lavoratore onesto.
“Centocinquanta sesterzi ora, per sugellare il nostro accordo, mille a metà del lavoro, così che tu possa far quadrare le spese di realizzazione e, infine, ciò che manca, così non avrai il rischio di regalare un altro tuo lavoro a un cliente che non si farà mai più rivedere”.
Gli affari andavano bene a Quinto in quel momento e poteva permettersi di perdere un nuovo acquirente, soprattutto per il fatto che lo mandava una persona che ritardava di continuo i pagamenti, eppure voleva dare una possibilità a quell’uomo che, sin dal primo momento in cui lo vide, sembrava nascondere un profondo turbamento.
“Non mi hai ancora detto che tipo di lavoro vorresti” chiese Quinto mostrandosi ancora leggermente diffidente, ma sotto sotto incuriosito dalla possibile richiesta.
“Un’urna, un’urna funeraria” rispose secco Lucio dopo un secondo che gli sembrò un’eternità; in quel secondo dovette accettare la dura realtà che da due giorni continuava a togliergli il sonno.
Quinto non fu stupito dalla sua richiesta, essendo uno dei marmorarii più richiesti di Roma spesso doveva realizzare monumenti legati alla morte di un parente o di un amico, ma il modo in cui quell’uomo espresse la sua volontà, senza lacrime, quasi con durezza, lo stupì e gli fece mettere da parte tutti quei sentimenti ostili che sono soliti sorgere di fronte all’amico di un debitore. Stava per dire qualcosa, per interrompere il silenzio che aleggiava nel suo studio quando inaspettatamente, Lucio prese di nuovo la parola: “La mia amatissima moglie è morta di recente e vorrei renderle omaggio per l’ultima volta con un monumento degno del suo nome, degno di lei”.
“Come si chiamava?” chiese Lucio, ormai compreso il turbamento che attanagliava quell’uomo.
“Callithyche”
“Non è un nome usuale per una matrona romana” osservò il marmorarius incuriosito.
“Perché Callityche non era romana, ma egizia” precisò Lucio guardando verso il basso. “Sai Quinto, noi qui a Roma portiamo il nome dei nostri padri o, nel mio caso, dei nostri ex padroni, perché è questo che fui, prima schiavo, poi liberto. I nostri cognomina spesso riportano qualche nostra caratteristica fisica o dei nostri padri. Penso al povero Cicerone, che da sempre dovette portare nel nome l’escrescenza di chissà quale suo avo, ma come lui si potrebbero citare molte altre persone. Per gli Egizi invece non è così. Loro prestano molta attenzione a questo aspetto” continuò spostando lo sguardo verso un interessato Quinto Suburano. “Gli Egizi spesso danno alle figlie nomi legati alla loro bellezza, i quali iniziano con nefer: i nomi di Nefertiti o Nefertari ti dicono qualcosa? Ecco spiegato il motivo. Sebbene più di tre secoli fa Alessandro abbia conquistato l’Egitto, influenzando i loro costumi con quelli greci, cosa che facemmo anche noi quando il Divino Augusto, che proprio nei pressi della tua bottega fece costruire il suo Foro, qualche decennio fa sconfisse Cleopatra e Antonio, quest’uso si è conservato nel popolo egizio. Nonostante fosse così bella, per una ragione che ignoro i suoi genitori non vollero sottolineare questa sua particolarità, bensì un’altra, la fortuna. Callithyche infatti significa proprio questo: colei che ha una bellissima fortuna”.
Quinto fu impressionato dalla cultura di quella persona che, da quanto diceva lui stesso, nel corso della sua vita era stato uno schiavo, quindi estraneo a qualsiasi istruzione giovanile. Il suo interlocutore non aveva mai sentito nominare i nomi di Nefertiti o Nefertari, non sapeva a chi o a cosa si riferisse, eppure quel racconto lo affascinava e lo incuriosiva allo stesso momento.
“E da cosa è derivata la fortuna di tua moglie?” domandò Quinto, ormai stregato dalle parole di Lucio.
“Come penso tu abbia già capito, Quinto, io ero schiavo, di un tribuno militare il quale si dimostrò essere una persona onesta: quando avevo all’incirca vent’anni decise di liberare me e i miei genitori e, visto che da sempre nella sua domus ci occupammo delle vivande, una volta liberi riuscimmo ad acquistare un forno. Gli affari andavano bene, perciò necessitavamo di qualcuno che ci aiutasse almeno in casa, così un giorno mio padre mi incaricò di andare al mercato degli schiavi. Fu lì che la vidi: una fanciulla così piccola, ma allo stesso tempo così bella, con la pelle abbronzata dal sole, sottratta ai pirati in Illiria ma proveniente da Alessandria. Appena la vidi mi sentii stregato e la portai a casa dettato più dal cuore che dalla ragione. Callityche era molto giovane quando arrivò a casa e, come ben sai Quinto, le nostre leggi ci impediscono di sposarci fino a quando la nostra amata non ha compiuto almeno dodici anni. Dovetti aspettare che la bambina diventasse una donna, due anni che per un giovanotto come me all’epoca sembrarono un’infinità di tempo, ma che di fronte ai quaranta passati insieme ora assomigliano di più a un battito di ciglia. Ebbene, appena la legge me lo concesse, a seguito del nostro fidanzamento decisi di sposarla una volta liberata. Dunque è questa, Quinto, la ragione dell’importanza del suo nome. Io la strappai dalla schiavitù. La salvai da una condizione misera. L’accolsi in casa mia e gliela diedi come posto in cui vivere. La trattai sempre con i migliori riguardi. L’amai, l’amai moltissimo durante questi quarantadue bellissimi anni passati insieme e proprio per questo voglio che riposi nel migliore dei modi che le mie finanze possono permettere, dove un giorno anche io potrò stare di nuovo con lei, ma questa volta in eterno.
Quinto non riuscì a trattenere le lacrime di fronte a quell’uomo che visibilmente amava ancora la donna che il triste fato gli aveva portato via. Ripresosi dal pianto e con la voce ancora flebile, quasi come se questa storia avesse stravolto più lui che il diretto interessato dal lutto, si riprese, dimenticando ormai il freddo e lontano impresario che sin dall’inizio si era posto dinnanzi a Lucio.
“E’ una storia bellissima e provo davvero tristezza per il suo epilogo. Rendiamole omaggio dunque, facciamo sì che chiunque veda ciò che rimane di Callityche in questa terra si renda conto di quanto importante è stata questa donna per te. Cosa desideri che faccia per realizzare tutto questo?” domandò Quinto con lo sguardo di chi ha in mente di piegare l’impossibile per realizzare i propri sogni, o meglio, quelli altrui in questo caso.
“Vorrei che rifletta ciò che mi ha concesso di incontrare Callityche. Se non fosse stato per quel forno non sarei mai andato al mercato degli schiavi. Un riferimento al grano, qualche spiga all’interno di un vaso, anche perché è proprio il grano che vendo che ora mi sta concedendo di pagare a mia moglie i suoi ultimi onori. Dall’altra parte mi piacerebbe che fossero rappresentate delle figure relative al contesto dionisiaco. Con il suo vino il dio ci libera dalle preoccupazioni e dagli affanni della vita, e la gioia e il piacere del vivere sono quello che Callityche mi ha sempre trasmesso. Lei era consapevole che la vita fosse solamente una e spesso ricordava che era necessario viverla per non provare paura al cospetto della morte. Questo è il modo in cui la mia amata dovrà essere ricordata, e anche io quando riposerò al suo fianco, senza raffigurazioni individuali, senza un mio o un suo ritratto, ma con questo concetto in mente: carpe diem. Per questo, Quinto, vorrei che tu scrivessi anche poche righe su di lei: Lucius Mussius Trophimus, a Callityche, liberta e sua moglie eccelsa e amatissima per i suoi meriti, con la quale visse quarantadue anni, sopportò cinquantadue anni.”
“Sopportò?” chiese Quinto stupito “non per infierire nelle tue volontà Lucio, ma è una forma inusuale”.
“Ne sono consapevole Quinto, ma per amare una persona come me sono sicuro che sia la forma più adeguata” concluse Lucio, con quello che sembrava essere lo spiraglio di un sorriso.
A passi lenti, ma decisi, Lucio Mussio Trofimo si avviò verso l’uscita pensando di essere riuscito ad affrontare la sua paura più grande, l’inequivocabile realtà che la sua sposa non fosse più con lui quando, con la porta più chiusa che aperta, la voce di Quinto interruppe per la prima volta non le sue parole, quanto i suoi pensieri. “Lucio” si girò incuriosito verso il marmorarius “stavo pensando alla tua storia. Mia moglie aspetta un figlio. Viviamo nella città più bella del mondo e il fato ha voluto che io avessi un lavoro che mi consente di vivere dignitosamente e di poter garantire alla mia famiglia non solo sicurezza, ma anche stabilità. Viviamo in tempi di pace, non ci sono più guerre e sono grato all’imperatore per questo. Vivo la vita che voglio, con la donna che voglio e faccio il mestiere che voglio. Se mia moglie darà alla luce una femmina, vorrò darle il nome che voglio, e questo nome sarà Callityche, così che anche lei possa godere di tutta questa fortuna”. Quello che all’inizio sembrava solo l’accenno di un sorriso si tradusse in un’espressione di serenità nel volto di un Lucio che non fu in grado di trattenere le lacrime. Non riuscì a dire nulla per mostrare a Quinto la sua gratitudine, ma l’abile marmorarius capì ed entrambi si congedarono con un cenno del capo di chi sembra conoscersi da una vita intera.
Fuori dalla bottega, nei pressi delle Tabernae Novae, il cielo si era schiarito e un raggio di sole illuminava il centro del mondo, il Foro, in cui, tra migliaia di persone, Lucio Mussio Trofimo finalmente camminava con l’anima in pace.

 

L(ucius) Mussius / Trophimus / Callityche lib(ertae)/ et coniugi suae / optimae et
meritis / suis karissimae / cum qua vixit annis / XXXXII, tulit / annos LII / et sibi.

Lucius Mussius Trophimus (fece quest’urna per) Callithyche, liberta e sua moglie eccelsa e amatissima per i suoi meriti, con la quale visse quarantadue anni, sopportò cinquantadue anni e per se stesso.

 

Questo progetto di storytelling epigrafico è stato elaborato nell’ambito del corso di Epigrafia Latina: Critica, Contesto, Strumenti Digitali, attivo per il Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Antichità, Università Ca’ Foscari – Venezia (Prof. Lorenzo Calvelli).